La lettera di un neo medico.
Sono Roberta, e da oggi sono ufficialmente un medico.
Ieri l'ordine dei Medici di Genova ha deliberato ufficialmente l'iscrizione all'albo di circa 150 medici, neoabilitati con il Dpcm del 17 marzo, e fra questi 150 c'è anche il mio nome.
Da oggi quindi, sono pronta, almeno formalmente, burocraticamente, per lavorare.
Posso partecipare ai bandi emergenziali della protezione civile, a quelli delle varie Asp che cercano medici a tempo determinato (6 mesi), posso "scendere in trincea", "andare a combattere il virus".
Eppure ho un buco in pancia, dovuto alla paura.
E non alla paura del virus o alla paura della morte, alla paura del futuro, mio e dei miei colleghi.
A emergenza finita, infatti, sarò di nuovo disoccupata. E da disoccupata parteciperò a un test, quello di accesso alle scuole di specializzazione, insieme, presumibilmente, ad altri 22.500 colleghi, medici come me, laureati da più o meno tempo, e saremo lì in varie sedi d'Italia a scannarci a colpi di crocette per 8.500 borse (contratti) di specializzazione.
Oggi che la carenza di specialisti è sotto gli occhi di tutti, anche di chi non vorrebbe vederla, 8.500 è un numero che sembra ancora più ridicolo di quanto già non fosse per noi "del settore", perché anche chi ha delle conoscenze di matematica basilari si rende conto che, con questa cifra, circa 14 mila medici resteranno senza lavoro, e saranno costretti a partecipare a bandi trimestrali di continuità assistenziale, a dedicarsi ad altro o a emigrare in altri Paesi dove i medici sono Eroi ogni giorno, dove lo Stato dice ogni giorno loro grazie per quello che fanno, e non solo quando lavorano 20 ore al giorno in condizioni precarie durante una pandemia da quasi 10mila morti (solo in Italia).
Io sono pronta ad andare. Sono pronta ad accettare incarichi temporanei adesso che c'è bisogno di me.
Vorrei tanto però che anche lo Stato fosse pronto: pronto a darmi delle garanzie, pronto a dirmi che a fine emergenza non mi butterà via come una mascherina usata ma mi farà restare qui, nel mio Paese, a fare il lavoro per il quale ho studiato e per il quale ho passato sei anni della mia vita sui libri, e lo faccia con un provvedimento semplice: aumentando i fondi per la sanità e rendendo il numero di borse della specializzazione proporzionale ai candidati, permettendoci di continuare il nostro percorso di formazione qui.
Noi siamo disposti a spenderci, a spendere energie, risorse: spenda per noi anche lo Stato.
Vogliamo allora continuare a fare finta di niente?
O vogliamo parlarne, capire, e fare in modo che, domani, da tutto il dolore di questi giorni si impari qualcosa?
Solo se i giornali ci aiutano possiamo fare abbastanza rumore da far capire che adesso è anche soprattutto il momento di programmare finanziamenti mirati e ben ponderati per la sanità.
Non è forse il caso di affrontare questo serio problema anziché aspettare di ritrovarsi, fra 10 anni, a scrivere di come sia morto il Sistema Sanitario Nazionale?
Roberta, SIGM Liguria