Barzellette alla Corte
Le barzellette di Ascanio Celestini fanno ridere, certo; alcune fanno ridere a crepapelle. Aspettatevi pure i doppi sensi e le parolacce. La gente lo sa: e così lo spettacolo “Barzellette”, al teatro della Corte fino a giovedì 6 febbraio, fa sempre il tutto esaurito. Ma, come spesso accade a teatro, non c’è un solo livello di lettura. Barzellette è un titolo fuorviante. E’ vero che questo spettacolo ne è pieno, ma è anche evidente che ne sono solo una parte. Anche stavolta se vuoi ti fermi alla risata: oppure guardi quello che c’è dietro, quello che c’è sotto. Ascanio Celestini in scena ripete più volte una frase che serve proprio a far capire che il suo spettacolo è più profondo rispetto a una semplice raccolta di storielle divertenti: “Loro hanno una destinazione. Che non è proprio un destino, ma qualcosa di molto simile”. Non sono concetti da La sai l’ultima
La storia è semplice, apparentemente. C’è un capotreno. Dice di essere “nel ramo ferroviario”. Con le barzellette racconta la sua vita, il suo lavoro, gli incontri che ha fatto, le storie che ha raccolto in tutta una esistenza sui binari: storie che descrivono la gente e per estensione l’umanità intera. Nella penombra, defilato, c’è un uomo che invece è “nel ramo funerario”: aspetta un cliente di riguardo, un morto eccellente. Il capotreno ha un altro interlocutore, il capostazione. Non è fisicamente in scena, ma è sempre presente nei racconti del protagonista: una presenza immanente. Lo scenario è una stazione terminale: quelle piccole, con un binario solo, dove il treno arriva la sera e riparte la mattina dopo in direzione contraria.
Poi scopri che forse il capotreno è già morto, e che forse il necroforo deve seppellire proprio lui. A questo punto pensi che il capostazione (e cioè colui che ha assunto il capotreno, dandogli quindi la sua identità) forse è Dio: per questo è sempre presente, ma non appare mai. Per questo è il custode della destinazione, e quindi del destino, dei suoi viaggiatori. E probabilmente la stazione terminale è la metafora neanche tanto nascosta della morte, e il viaggio pieno di barzellette e momenti tristi è la metafora della vita. Un quadro Beckettiano, che più Beckettiano non si può. Lo spettacolo di Ascanio Celestini è moderno, anzi, contemporaneo. Le scene sono ben costruite. La musica suonata dal vivo sul palco aggiunge spessore e colore alle barzellette e al monologo che le circonda. Parola, luci e musica sono armonizzate egregiamente dalla regia e trascinano lo spettatore per tutta l’ora e mezza della rappresentazione.
Questo raccontare barzellette è un parlare di vita. Sotto la superficie della storiella ingenua o maliziosa si riesce a intravedere un senso più profondo, quasi inquietante. Celestini inizia con calma, presentando varie immagini di umanità, in una panoramica di quello che passa per le stazioni e i treni. Storie buffe iniziano a concatenarsi, si ride. Poi lentamente emerge una domanda che ha molto del filosofico: “Chi siamo noi?”. La risposta si costruisce: siamo l’insieme di queste identità, siamo i personaggi di queste storielle da poco, siamo qualcosa che fa ridere. Le barzellette hanno quasi l’aspetto di storie zen, che dicono una cosa semplice, quasi assurda, che cela un significato più profondo sui modi in cui i vari personaggi vivono la vita, le opportunità, le difficoltà. Ma non c’è solo questo. Questo spettacolo finisce per costruirsi come immagine della vita, con i suoi momenti leggeri e con quelli pesanti. Perché non ci sono solo storie divertenti nella panoramica di Ascanio Celestini. Il monologo è strutturato come una specie di Uno-Due dove, tra le varie facezie sono inserite ad hoc storie vere, riferimenti a fatti di cronaca, ad altre cose che il pubblico conosce. Il contrasto colpisce allo stomaco, le storie della realtà sembrano più assurde di quelle esagerate, costruite e raccontate per far ridere. I due estremi sono così distanti che quasi si toccano, ma non frizionano uno sull’altro. Si passa dal ridere con trasporto al riflettere con l’amaro in bocca, senza soluzione di continuità, fluidamente… e, alla fine, è così che funziona la vita.
Corrado Fizzarotti
Paolo Fizzarotti